Stupor mundi fu detto dai contemporanei Federico II di Svevia, l’unico degli imperatori germanici del medioevo, insieme con il Barbarossa, che subito ci rimandi a immagini evidentissime: la disfatta inflittagli nel 1248 dai popolani di Parma, gli splendori della corte di Sicilia, i castelli di Puglia, gli arcieri musulmani, le donne dell’harem, le cacce col falcone illustrate nel suo trattato. Immagini romantiche, però. E confluenti verso un’interpretazione convenzionale, tesa a chiudere con la sua figura un conflitto secolare tra Impero e Chiesa, e inaugurare invece il decollo della civiltà borghese mercantile culminante nel Rinascimento. In questo libro, invece, l’imperatore si muove all’interno di un complicato gioco d’azioni e di reazioni. Di lui viene rivelata, duplice e sconcertante, l’anima insieme feudale e illuminata: il senso feroce del potere, e lo scetticismo che a esso poneva di continuo un limite invalicabile.
In questa biografia uscita per la prima volta nel 1927 e ormai divenuta un classico, Ernst Kantorowicz riesce a mantenere l’equilibrio tra il riconoscimento del ruolo personale di Federico come artefice della Storia e l’importante materiale documentario dell’ambiente sociale e culturale, da Lubecca alla Palestina, che influì su quell’operato. E ci lascia un libro che è una lezione di metodo ancora attuale.
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"Stupor mundi" fu detto dai contemporanei Federico II di Svevia, l'unico degli imperatori germanici del medioevo, insieme al Barbarossa, che occupi un posto riconosciuto nella nostra storia e subito ci rimandi a immagini evidentissime: la disfatta inflittagli nel 1248 dai popolani di Parma, la città di quel Salimbene che lo paragonava a un drago funesto; gli splendori della corte di Sicilia, consacrati dalla lirica della "prima scuola", di cui il sovrano medesimo era mecenate; i castelli di Puglia, gli arcieri musulmani, le donne dell'harem, le cacce col falcone illustrate nel suo trattato, il più ricco che ci resti in materia. Immagini romantiche, però. E confluenti verso un'interpretazione convenzionale, che confina Federico in una luce araldica di crepuscolo: per chiudere con la sua figura un conflitto secolare tra impero e chiesa, e inaugurare invece il decollo della civiltà borghese mercantile culminante nel rinascimento. Qui l'imperatore non è segnacolo di una fase storica schematizzata, ma si muove all'interno di un complicato gioco d'azioni e di reazioni. Di lui viene rivelata, duplice e sconcertante, l'anima insieme feudale e "illuminata": il senso feroce del potere, e lo scetticismo che a esso poneva di continuo un limite invalicabile.
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