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I giacobini neri (DeriveApprodi) - Softcover

 
9788865481103: I giacobini neri (DeriveApprodi)
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Reseña del editor:
Nell'anno 1789 la colonia francese di Santo Domingo nelle Antille francesi forniva alla madrepatria i due terzi del suo commercio internazionale e rappresentava il massimo mercato della tratta europea degli schiavi. Era la colonia più fiorente del mondo, l'orgoglio della Francia e l'invidia di ogni altra nazione imperialista. Nell'agosto del 1791 scoppiò sull'isola la rivolta degli schiavi, che si sarebbe protratta per i successivi 12 anni e sarebbe sfociata, nel 1803, nella dichiarazione d'indipendenza di Haiti. Storicamente l'insurrezione antillese è la prima rivolta contro la schiavitù a conoscere un esito positivo; la prima forma di indisciplina di massa contro l'uomo bianco e la sua dominazione coloniale; il primo indelebile scacco degli eserciti nazionali di fronte a una moltitudine di schiavi. Da essa prenderanno le mosse i movimenti di liberazione nazionale che hanno, nel corso del XIX e XX secolo, progressivamente smantellato gli antichi imperi coloniali. A questa rivolta, e al suo principale protagonista Toussaint Louverture, guarderanno tutti i rivoluzionari che nell'arco dei due secoli si sono battuti per la liberazione delle popolazioni oppresse del Sud del mondo. Toussaint Louverture, l'ex schiavo nero che guiderà la sommossa contro gli eserciti europei, diventa così l'emblema di un'esperienza a cui guardare anche oggi, alla luce dei fallimenti di quei movimenti di liberazione nazionale che con tanta forza si opposero al colonialismo.
Contraportada:
Dalla Prefazione di Sandro Chignola 1. «La tradizione degli oppressi – ha scritto Walter Benjamin – ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola». La storia non è orientata da una legge che la inclini al compimento. Con buona pace di Habermas, la modernità non è un processo solo provvisoriamente incompiuto e tuttavia destinato a realizzare le proprie premesse. Essa è fatta piuttosto di rimozioni, di censure, di silenzi. E ancora, di tensioni non cumulabili, di lacerazioni non recuperabili, di zone d’ombra irraggiungibili allo sguardo sovrano dello storico. Sibylle Fischer, in un suo formidabile libro, ha di recente portato esempi decisivi in merito. Il Dizionario critico della Rivoluzione francese, preparato da François Furet e Mona Ozouf in occasione del bicentenario e autentico repertorio autocelebrativo della cultura politica liberale – a conferma di ciò che C. L. R. James chiama la «curious disinclination» degli storici a trattare il tema – non ha una sola voce dedicata al colonialismo o alla schiavitù. La Rivoluzione di Santo Domingo, l’intera vicenda di liberazione di cui tratta I giacobini neri, non viene in esso affatto menzionata. E la stessa Hannah Arendt si dimostra letteralmente incapace di pensare una rivoluzione che disabiliti il codice binario sul quale costruisce On Revolution. L’insorgenza dello schiavo contro i propri padroni mette in crisi la netta opposizione tra politico e sociale che sta alla base della differenza tra Rivoluzione americana e Rivoluzione francese e che ne divarica inesorabilmente i processi. Inesistente per i liberali – perché difficile a collocarsi nel lineare decorso di un’idea di progresso tutta occidentale ed eurocentrica – e impossibile a pensarsi per una filosofia politica che, come quella di Arendt, inscrive nella figura vittimale del profugo il «diritto ad avere diritti», la presa di parola dello schiavo, la materiale soggettivazione dell’escluso, e assegna una diversa qualità alla storia. Ne ritrascrive codici e processualità. Zittire il passato è stato il lavoro dell’idea di modernità. Che ha potuto essere mobilitata per qualificare come semplicemente residuale la violenza sulla quale si è ritagliato il suo profilo d’epoca. E costruire la serie del proprio tempo vuoto, il modo per definire il sistema di fatti da mobilitare di volta in volta come premessa da compiere o come promessa da adempiere. Dentro questa serie non c’è posto per lo schiavo. Esso viene di volta in volta assegnato a un passato remoto che la modernità ha ritrascritto, oppure confinato nello spazio di una pura eccedenza. La schiavitù come esperienza di una violenza inassegnabile, altra. Al limite traccia di una cultura subalterna, di una resistenza o di un rifiuto che marcano e confermano un’esteriorità. La storia rimane quella del progresso, il suo sito l’Europa e il tempo dello schiavo è integralmente sussunto nello schema emancipativo che conferma quel quadro. Detto altrimenti: la modernità non ha nulla a che fare con la schiavitù. Il suo presente, tutt’al più, rappresenta il futuro che redime il ritardo di quanti il colonialismo – passato facilmente riscattato da uno sguardo benevolo che indulge sulle contraddizioni del «terzo mondo» – ha incrociato per un istante e poi abbandonato. E invece non è così. La regola è lo stato di eccezione, dice Benjamin, come insegnano gli oppressi. Perché la loro voce, strettamente intrecciata a quella degli oppressori, fa letteralmente saltare la rappresentazione universale della storia. Non c’è modernità che sia possibile separare dal proprio passato. Un passato che insiste nel presente e che lo abita come sua immanente contraddizione. Il problema non è semplicemente definire la modernità come razzista ed eurocentrica, o affermare il suo tragitto come ciò che il subalterno è costretto a – oppure pretende soggettivamente di – incrociare. Il problema è comprendere la sua natura intrinsecamente conflittuale. Pensare il progresso, la modernità, come la posta in gioco di uno scontro in cui vengono sempre ridefinite e contrattate nuove posizioni di forza. 2. C. L. R. James, questo, lo sapeva bene. È la contraddizione che gli si squaderna davanti agli occhi – a lui, nativo di Trinidad, militante marxista e attivista nero la cui vita diasporica attraversa l’intero XX secolo e un’infinità di luoghi – come la contraddizione che nessun futuro può redimere e che al cuore delle metropoli occidentali evidenzia l’«ancora possibile» di una condizione coloniale che non è concesso pensare come abbandonata al passato. Il Sudafrica dell’apartheid. L’impero inglese nel subcontinente indiano e i migranti a Londra. Il segregazionismo del Sud degli Usa e le Pantere Nere a Oakland e Detroit. I ghetti neri. La guerra di Algeria. Gli arabi nelle banlieues. Il corpo della donna, nera e operaia («the negro woman», scrive James, «when she goes out to work, is a woman, a negro and a worker»), come la superficie di inscrizione di un codice dell’esclusione e dello sfruttamento che resta, almeno in apparenza, inviolabile. Di nuovo Benjamin, allora. «Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel XX secolo è tutt’altro che filosofico», egli scrive. «Non è l’inizio di alcuna conoscenza, se non dell’idea che la storia da cui proviene non sta più in piedi». Il progresso non redime la storia. Non c’è progresso della civiltà in grado di saldare i conti con l’orrore della schiavitù, di consegnarla al passato. Sfruttamento e violenza sono sempre attuali. Attraversano il presente e lo riconfigurano in luogo dei possibili e dell’evento. Di questo permanente «stato d’eccezione» è fatta la storia. E il recupero del passato non si rappresenta, per chi ne abbia la consapevolezza, come curiosità antiquaria o come fissazione di un termine rispetto al quale misurare il progresso, ma come recupero della perfetta contemporaneità di vicende che, per quanto lontane sul piano temporale, riaprono sempre e di nuovo la storia all’alea materiale di una sconfitta o di una vittoria. Su di un presente del dominio o della rivoluzione. Quello di James non è solo un grande libro su una vicenda censurata e accantonata, sulla Rivoluzione di Santo Domingo come parte fondamentale, interna, della Rivoluzione francese. È anche, con Benjamin, un «balzo di tigre nel passato» in grado di riattivare l’attualità di un tempo della liberazione che balena dal passato come ciò che scuote e spacca il presente. È pensato come un libro sulle lotte di autodeterminazione dei neri in Africa e nelle colonie e come strumento di formazione politica per le lotte di liberazione dei neri in America e in Europa. Un paio di circostanze sembrano confermarlo. La prima è la ricorrenza dell’allestimento dell’opera teatrale dedicata a Toussaint Louverture, all’esordio e alla fine della biografia intellettuale e politica di James. Qualche tempo prima della pubblicazione de I giacobini neri viene messo in scena a Londra, tratto dal manoscritto, uno spettacolo dedicato alla Rivoluzione di Santo Domingo. Esso verrà rivisto e riallestito nel 1986, ancora a Londra, tre anni prima della morte dell’autore. L’intera vita di C. L. R. James – a dispetto dell’impressionante mole di libri, articoli e interventi prodotti a partire dagli anni Trenta – è racchiusa nel cerchio disegnato da quell’opera. Una vita di intellettuale e di militante dedicata a sfatare il mito della passività e della docilità dei neri («the docile negro is a myth», egli annota); a imporre al movimento socialista internazionale l’autonomia della lotta abolizionista e anticoloniale da parte dei neri come legittima parte di uno stesso percorso e a ritrascrivere l’idea stessa di civiltà e di progresso. «The only place where negroes did not revolt is in the pages of capitalist historians», scrive James. Rendere allo schiavo quanto gli è effettivamente dovuto, è il passo decisivo per trasformare la nostra visione complessiva della storia, dirà in altro luogo. La seconda circostanza è raccontata dallo s tesso James. Durante le celebrazioni per l’indipendenza del Ghana, nel 1957, egli incontra alcuni giovani attivisti sudafricani, che gli raccontano quanto I giacobini neri sia stato importante per loro. Una copia del libro era disponibile nella biblioteca della Black University ed era stato un professore bianco a consigliarne la lettura. Leggere il libro significa, per gli studenti, comprendere la rilevanza delle relazioni di meticciato nella lotta abolizionista. Capire l’importanza del complesso intreccio di alleanze tattiche con le altre identità e le altre «razze» che è necessario stabilizzare come componente fondamentale dell’insorgenza rivoluzionaria contro il regime di apartheid. Di qui la circolazione clandestina del libro. Il suo essere copiato, riorganizzato per estratti, il suo essere diffuso come strumento di discussione e di formazione politica tra i militanti di ogni colore. La Rivoluzione di Santo Domingo come insorgenza contro l’apartheid sudafricano diviene la contemporaneità del non contemporaneo, in cui i subalterni producono la propria soggettivazione [...].

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  • VerlagDeriveApprodi
  • Erscheinungsdatum2015
  • ISBN 10 8865481102
  • ISBN 13 9788865481103
  • EinbandTapa blanda
  • Auflage2
  • Anzahl der Seiten380
  • Bewertung

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